Nel Nord (Roma Vilnus Riga Milano)

Partire era come barare: questa mano non poteva essere la mia. Conscio di questo osservavo la città che conoscevo scomparire, un’altra volta, un’altra volta ancora. Apprezzavo come non mai lo stile liberty delle villette che controllavano tapine il mare, l’aprirsi di quella infinità distesa di piccoli e dolci seni. Le Marche, raffinata poesia di dio. E poi via, il triste spettacolo di ruderi e capannoni privati del privilegio della funzionalità dalla maledetta epidemia economica, la montagna la cui grazia dell’ultimo raggio di sole è vinta da nubi, eterne agoniste delle stelle, e stanotte esigono una notte buia e se la ridano da lassù. Oltre è una terra che non mi appartiene, sfocati spezzoni di vita che oserei chiamare ricordi. L’autobus avanzava a velocità moderata e il caldo artificiale coccolava Arthur, il mio piccolo elefantino, il mio compagno di viaggio. Io sono un ateo credente: credo nello spirito che sento nascere nella mia mente, nel fuoco che vive nel cuore, nelle parole e nella loro magia.

Una croce appesa ad un occhio scacci guai acquistato in una remota parte della Turchia anni addietro mi ricorda che io non morirò in questo viaggio, ma cos’è allora quest’ansia, questa molesta voglio di alzare i tacchi e fare dietro fronte, almeno per una volta in questa strana vita.

 

A mente ancora calda (si fa per dire perché qui c’è il ghiaccio e il sole è una massa uniforme dietro nubi bizzarre) rifaccio i calcoli, e mi guardo indietro. Scendo da un pullman, per salire su di auto sfacciatamente giapponese (e siamo solo nel centro di Rieti), ed ora sento da Vasco che  è stata tutta colpa di Alfredo. Poi ceno, salgo su un’altra macchina, viaggio nel degrado urbano che regna attorno Roma per qualche ora e poi tutto ad un tratto quella frenesia, quell’ingordo malumore celato nella profonda voglia di staticità si azzittisce, quieto e senza rancore. Ed ancora siamo solo io e me (e naturalmente Arthur che da bravo porta fortuna dorme silenzioso). La porta è chiusa e Ciampino è dolce come una poesia di De André e solo il silenzio che regna tra le luci soffuse e gli sguardi indiscreti delle mille telecamere invisibili lo possono raccontare. L’aeroporto apre alle quattro, avvertono una serie di cartelli affissi, ma la porta degli arrivi è aperta e mi ci fiondo dentro, aggiungendo alle imprecazioni per il mal collegamento offerto dall’azienda, l’astio verso un paese volontariamente incapace di fare e seriamente convinto di essere caput mundi di un mondo che non esiste ancora. E ciò lo penso guardando lui, Maghreb direi, e lei, sicuramente giapponese, con i suoi capelli rossi e i suoi occhi eroticamente affascinanti. E gettando via amabili quanto vitali lezioni di filosofie superiori mi getto in queste banali etichette. Fisso quell’uomo e ammiro il colore delle sua pelle, solo un po’ più scura della stessa pelle di cui godevo drogato della voglia di possedere il mondo, della quale mi sono nutrito avido senza risparmiarmi niente. Provo a fuggire da queste quattro ore che mi separano dalle due ore in cui sarò lì, sull’aereo che qualche giorno prima era precipitato nei miei sogni. E può sembrare strano, non è stata di sicuro un eternità perché il mio tempo è quello presente e mai potrò rinnegarlo. E così l’attesa si spegne in sette sigarette, i controlli sono un sorriso e uno scambio di battute con una simpatica poliziotta, il volo e il tram tram delle hostess palpebre che si congiungono, uno sguardo di dio sui terreni ghiacciati e il ghiaccio. Poi c’è la Lituania e bene, sono a metà strada, forse un poco più. Voglio un caffè e cerco un taxi. Trovo il taxista, lo guardo in faccia, chiedo il prezzo, domando per essere sicuro di non aver frainteso data la mia scarsa intimità con la lingua (inglese), bene sono 80 soldi lituani, bene vado a cambiare i soldi, bene, e invece giro l’angolo e cerco  la navetta, che naturalmente era partita nel frattempo che intavolavo la discussione già citata, constatando che su un cartello assai vistoso a lettere cubitali, e non cirilliche, si avvisava che il passaggio navetta è di solo 3 monete, bene. Ho bisogno di un caffè e un altro taxista mi trova, bene, questo mi è simpatico. Che bastardo che sono. Chiedo quanto viene fino all’autoosta, che tra l’altro non si dice così visto che è un termine lettone, e siamo solo in Lituania (Arthur ancora non ci crede, lui è un elefantino di legno indiano e la neve non l’hai mai vista), Autobusų stotise e fa un cenno verso il  tassametro. Viva la legalità e fregandomene dello scarso budget monetario a disposizione mi fiondo nel taxi più scassato che scintillava tra mercedes e bmw, made in Fiat, evvai ! Il taxi corre e scambiamo due chiacchiere, ma anche il tassametro corre e poi arriviamo e mi chiedi 50 soldi. Io gliene stento 80 come pattuito con l’altro. In fondo siamo a Natale, ma a me del Natale non me ne po’ frega de meno, è passato, ma tornerà, rimanete fiduciosi, tornano sempre. “Nel nome di iddio abbondate in clemenza” ordina Allah, il Compassionevole, il Misericordioso.O madre, grazie per avermi partorito così grandioso. La stazione degli autobus è stupenda e descriverlo è più che un piacere. Sopra c’è un negozio, un supermarket da cui escono ed entrano persone di tutti i tipi e di tutte le età incappucciate dalla testa ai piedi per resistere ad ogni avversità e quanto vorrei uno di quei berretti. Poi mi ricordo di averlo, ma essendo consono a sfidare le avversità, e perché mi hanno detto che con quel “coso” sembro un preservativo, decido di resistere ancora un po’, spegnendo la stozza e finendo di sbirciare sospetto il bancomat che ho davanti. Entrando evito di andare a curiosare tra i bancali e mi fiondo subito per una scalinata dove è indicata la direzione per la rimessa. La speranza è davvero l’ultima a morire: sono 28 ore che non dormo e sento la stanchezza lamentarsi come quella checca di satana con Gesù sul monte ? << “Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.>>

Voglio un caffè e come d’incanto si presentano tre kafetaria e un Naversen, che per intenderci è un compagnia nordica che vende un po’ di tutto e dove la gente che ha fretta, e la gente al nord ha sempre fretta, può soddisfare le sue necessità. Ma sicuramente è il primo ad essere scartato, poiché non hanno l’espresso, questo lo so per esperienza. Anche un’altra caffetteria sembra non avere la macchina. L’alternativa si riduce ad una caffetteria molto carina dove scorgo tre persone che cucinano in una elegante divisa blu dell’appetitoso pollo al curry che mi impegna a mantenermi fedele alla promessa di essere dove dovrò essere per pranzo, e un’altra non molto appariscente dove lavora una ragazza che sembra un angelo biondo come quello dello preghiere. Decido di fidarmi più del curry ed entro. Mentre li fisso, loro non mi si filano affatto. Ma io aspetto perché voglio il mio caffè, e non fa niente se sono passati due minuti e figurati se in cinque minuti cronometrati , nessuno mi assiste. Io voglio il mio caffè e l’ora di attesa prima dell’arrivo del bus, che già si è ridotta a cinquantaquattro minuti, mi assiste nella ricerca del mio sacro Graal. Finalmente un giovanotto mi viene a chiedere qualcosa che suppongo essere desideri o dimmi, e in un perfetto italiano gli chiedo un espresso, rammaricandomi do dover abbandonare la classico forma di “un caffè, per favore”. Lui strabuzza gli occhi, dice fra se e se qualcosa e se ne va in cucina e potrei quasi irritarmi se una ragazza taciturna non tornasse per spingere un bottone da cui esce un caffè se non apprezzabile nel gusto, almeno giusto nel prezzo: 40 centesimi. Pago e mi siedo e in pochi minuti sono fuori dal tunnel nel parcheggio, ma non prima di aver mandato due giovani compatrioti desiderosi della stessa pregiata essenza nel posto opposto al mio. Felice della vendetta e del retrogusto che assume man mano che scompare sempre più il gusto di caffè, mi siedo e mi accendo un’altra sigaretta, fiondandomi nella lettura  del Conte di Montecristo e godendo, godendo, fino a venire di un orgasmo letterale. Poi un altro autobus e ancora neve, e ancora Riga.

 

Scendo dall’autobus ancora mbriaco delle ore che non ricordo. Fumo, apprezzando il fatto che nonostante il sonno perso non ho esagerato come al mio solito nello “spippettare”, come direbbe quella santa donna di mia madre. Il mercato centrale è popolato da una immensità di unità che si muovono alla rinfusa. Da lontano sono colbacchi e pellicce, chiome bionde e carretti zeppi di merci nonostante l’ora. Sono le cinque, o le quattro, non lo so. Un fuso orario di un ora può stravolgerti la giornata, ma io ho terminato i miei impegni di oggi. Sono arrivato, finalmente. Il fiume ghiacciato espande questa sensazione di freddo pungente. Mi ero organizzato per bene, che tradotto in termini reali si traduce con l’avere acquistato un numero adeguato di regali, di mutande, di calzetti e di libri. Per il resto mi chiedo dove siano la sciarpa, i guanti e il cappello e sopratutto dove sia lei. La neve cade lentamente, senza fretta, il ghiaccio vince sugli elementi. Gabbiani bianchi e neri pattinano sul fiume, mentre i merli li richiamano da lontano. Intanto lei arriva: la bacio, sentendo il bisogno di possederla ancora una volta. La stringo forte godendo di quel calore che in tanti mese mi è sempre mancato. Il mio non è mai un tornare a casa, è solo un cambiare posto. La mia casa è lontana in una dimensione che solo nelle mie voglie assume una docile forma pentagonale, con mensole e librerie in cui rendere sacri i testi che mi hanno accompagnato sin qui. La mia casa è un posto bello, ma non ancora vero. Per ora mi accontento, dopo una mezzora passata nel traffico caotico della città, di varcare la soglia ove una famiglia, che non è la mia, mi attende. Il resto sono sorrisi, gentilezze, rispetto e pudore, amicizia, amore, sesso, film, qualche pensiero non dovuto alla lontananza, bensì all’immagine di mio nonno, che al freddo porta fuori il cane e si fuma una sigaretta in barba ai medici che gli hanno riscontrato che non sta bene.

Poi c’è Jurmala e la spiaggia imbiancata dove spiccano arbusti rossi che rendono tutto così irreale, e il mare ghiacciato che in blocchi si muove preparando la seguente mossa. Scacco matto, penso tra me e me. E chi l’ha visto mai l’Adriatico ghiacciato !

Poi torniamo a casa per il bosco dove gli alberi sono giganti: ogni cosa in Lettonia è più alta, gli uomini, le donne, la natura, i boccali di birra. Solo i bambini rimangono bambini e mi soffermo a vederli giocare tra la neve con lo slittino. Ho un cappello nuovo con una pelliccia che mi scalda le orecchie, una sciarpa caldissima e dei guanti semplicemente meravigliosi. Passeggiando ricerco nella mente la prima impressioni che ebbi quando venni qui la prima volta, ma non la trovo. E’ strano come la familiarità con un posto renda tutto così adeguatamente strano, quando non lo abiti, ma lo vivi.

Vorrei andare a Riga, ma il tempo non lo permette. Troppe impegni da entrambi le parti, strana vita da universitari. Intanto il Capodanno passa, senza eccezioni e senza eccezionali annotazioni. Intanto vado un po’ a camminare sul fiume, che perde molto del suo fascino senza il ghiaccio e i pescatori che lo usano come piattaforma. Un cigno. E’ meraviglioso e provo ad avvicinarmi, ma dallo sbattere delle sue ali, capisco che non è aria. Intanto rullo una sigaretta di marijuana e decido di non  passarla al pennuto, così che capisca la lezione. L’andiamo a fumare con Arthur, ancora immobile come una salma, sotto il ponte osservando da lontano una pattuglia della polizia che segue lo scorrere tormentato del fiume. Poi rientro e i giorni passano via, senza eccessi e senza segnalazioni. Ed il tempo di tornare si traduce in un volo silenzioso, nel fracasso della stazione di Milano tra il passo svelto dei businessman che vanno da una parte all’altra e dei clochard che invece rimangono lì fermi, e nell’immagine del Mare Nostrum che sussurra timido, ben tornato.

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